Intervista a Simon Njami

Da wikiafrica.

Incontro Simon Njami in un bar, di fronte alla sede dei workshop WikiAfrica a Mantova. Ha appena terminato una riunione sui futuri sviluppi del progetto e mi chiede, con un ghigno ironico: un tavolino, una sigaretta ed un prosecco. Non ha bisogno d’altro. Così l’intervista sarà una passeggiata. Aspetto che la cameriera solerte provveda, è meglio, e dopo il primo sorso che notoriamente arreca conforto, gli chiedo semplicemente perché è qui, perché ha deciso di dedicare parte del suo tempo a WikiAfrica.

Simon accende la sigaretta, mi fa notare che è l’ultima del secondo pacchetto della giornata e mi dice che è venuto perché non capiva bene di cosa si trattasse. "Le cose che non capisco mi interessano” - e credo sia vero, la sua biografia parla di uno spirito curioso. Avanzo la seconda domanda, il suo prosecco è finito.

Avevi già lavorato su progetti che legassero l’Africa alla sua presenza sul web?

"No, per me è un tema nuovo. In effetti non me ne sono mai preoccupato molto. Continuo a pensare che la vera emergenza sia materiale. L’Africa ha innanzitutto bisogno di computer e di connessioni internet. La questione dei contenuti può venir dopo".

Ma allora Simon, perché hai risposto all’invito della Fondazione lettera27 Onlus? Qui, come avrai certamente notato, se ne fa soprattutto questione di contenuti!

Simon non fa marcia indietro. "Ho detto sì perché mi è piaciuto il livello sperimentale sul quale il progetto muove i primi passi: l’inizio di qualcosa di potenzialmente efficace. E Iolanda è stata molto convincente nel propormi di accostare la letteratura all’arte contemporanea, i miei due campi d’elezione." Perfetto, cominciamo ad entrare nel merito. Azzardo qualcosa di un po’ più complesso, dopotutto prosecco e sigaretta dovrebbero aver sbrigato il loro sporco lavoro.

Nel workshop di cui sei stato relatore, hai attribuito all’opera d’arte la capacità di rappresentare e, rappresentando, di ordinare il caos, di dare un possibile riferimento, una traccia al fruitore, se così possiamo chiamarlo. Pensi che il sistema Wikipedia possa, a tutt’altro livello, dare allo stesso modo coordinate reali, capaci di fermare il caos informativo sull’Africa?

Temo per un attimo che la domanda sia troppo lunga e impegnativa per uno che semplicemente voleva farsi quattro chiacchiere al bar, ma Simon Njami - come si poteva prevedere - non si scompone. Per lui Wikipedia ha un’utilità molto limitata, lo dice schiettamente, ma - salvando capra e cavoli, forse intenerito dal clima mite - aggiunge "Wikipedia può offrire un vero servizio solo se fornisce all’utente materiale endogeno, di prima mano. Testi, filmati, registrazioni, fotografie, quel genere di materiale che non è passato attraverso un’interpretazione di terzi. Questa è reale informazione, non solo per l’Africa". La domanda non l’annoia, sembra coinvolto e continua "Non esiste niente di più freddo, di più neutro della tecnologia. Il supporto tecnologico è essenziale ai fini comunicativi. Il problema, come ho detto poco fa, è legato ai materiali. È necessario che sia direttamente l’Africa a parlare di sé e per far sì che questo accada, una più vasta rete di computer e connessioni in loco è necessaria".

Insomma Simon, vogliamo infine ammettere che il Dio tecnologico occidentale insieme alla proposta enciclopedica di Wikipedia può rendere un servizio alla dilagazione di informazioni sull’Africa?

La risposta di Njami è decisa e sicura. "Assolutamente sì, a patto che sia l’Africa a comunicare se stessa".

Decido di cambiare argomento, mi pare che la sua posizione riguardo il progetto WikiAfrica sia ormai chiara. Lui si accende un'altra sigaretta, sospira. Io prendo atto della buona disposizione d’animo e mi sembra che sia arrivato il momento di osare.

Torniamo al workshop. Hai descritto il mestiere del traduttore come inscindibilmente legato al tradimento, ma è evidente che anche il critico o il curatore d’arte devono pagare e far pagare lo stesso prezzo. Mentre parlavi, avrei voluto chiederti come pensi d’aver tradito l’Africa in veste di curatore del Padiglione africano alla Biennale di Venezia di quest’anno. Te lo chiedo ora.

Avrebbe preferito qualcosa di più colloquiale, la sua mimica non fa nulla per dissimularlo, ma le provocazioni sono pane per i suoi denti e non si tira indietro. "Non ho tradito l’Africa" - è lapidario - "Ho tradito solo chi pensava che avrei usato l’opportunità del Padiglione per rappresentare l’Africa. Io parlo solo per me, quindi, alla Biennale, ho parlato della mia Africa. Non avevo alcuna intenzione di dar voce a nessuno, inoltre, un artista che decide di partecipare ad un'esposizione diviene complice del suo traditore. L’artista ha almeno la possibilità di scegliere da chi lasciarsi tradire". Njami è sicuro di quel che dice, così mi sembra, ma le polemiche che hanno accompagnato il "suo" Padiglione africano devono averlo indispettito più di quanto pensassi ed è lui stesso a continuare a parlarne senza ch’io proferisca parola. Mi limito a prender appunti, annuire e bere dal mio bicchiere. Solo acqua per me questa volta. "Ho accettato l’incarico del Padiglione partendo dal presupposto che gli assenti hanno sempre torto. Il mio è stato soprattutto un progetto politico. Una sorta di cavallo di Troia. Il sistema dell’arte internazionale è decadente e non può esser cambiato se non dall’interno, facendone parte, rendendosene complici almeno per un tratto di strada".

Quindi ho davanti un nuovo Ulisse che invece di espugnare una città cerca d’espugnare un sistema, interessante, ma perché proprio tu? Perché la scelta è caduta su di te?

"Non lo so". Lo dice sorridendo, schernendosi. "Non è vero, lo sai e sai di saperlo" - non mi trattengo dall’insistere. "D’accordo, diciamo che un giovane curatore non avrebbe mai avuto i contatti, il network e i soldi necessari per organizzare in così poco tempo un'esposizione simile. Ho un nome, è inutile girarci intorno". "Così va meglio". Vuole continuare sul tema. "Alla Biennale ho voluto prender posizione. Il padiglione non voleva essere un'esposizione d’arte africana, ma uno “spazio-Africa”: ecco spiegata la presenza di opere di Warhol e di Basquiat. Sono assolutamente contrario alla creazione di padiglioni africani, sarebbe molto meglio investire il denaro nella creazione di musei d’arte contemporanea in Africa. La storia dei padiglioni nazionali è ormai vecchia, legata all’idea antiquata delle esposizioni universali. Quest’anno alla Biennale ho solo voluto dir la mia, ne avevo la possibilità e l’ho fatto". Non c’è nulla da dire, Simon Njami ha le idee chiare e si prende la responsabilità di ciò che afferma.